Il titolo non è di chi scrive, ma del più autorevole giornale argentino, il Clarin di Buenos Aires ed è una fotografia perfetta della situazione, che non è né inattesa né misteriosa. Semplicemente stanno venendo al pettine i nodi della politica economica degli ultimi anni portata avanti dalla dinastia peronista dei Kirchner. Singolare il titolo di “Repubblica” dei giorni passati: “La Fed snobba la crisi dei paesi emergenti”, come dire che le difficoltà di alcuni paesi come l’Argentina dipendono dalla scelta dei nordamericani di immettere meno dollari sul mercato per rafforzare la propria crescita economica. Superflua l’osservazione che lo spirito anti USA non è morto nella sinistra del nostro paese. È vero, la politica monetaria della Fed colpisce i paesi emergenti, ma le responsabilità non sono degli USA, ma degli emergenti che sono fragili e impreparati. L’America Latina è la riprova di quanto sopra. Certamente tutti i paesi hanno visto le loro monete perdere di valore, il real brasiliano del 12%, il peso cileno dell’8,97%, il sol del Perù del 9,21%. Tutti colpiti dall’inversione di marcia del dollaro, dai paesi emergenti verso gli USA. Ma dove questo fenomeno ha creato un problema drammatico è l’Argentina e il Venezuela. Lasciando da parte il Venezuela, dove la situazione rischia di essere anche peggiore, l’Argentina vede scoppiare situazioni e problemi noti e conosciuti. I peronisti argentini hanno pensato di risolvere i problemi nascondendoli, vedi l’inflazione dichiarata al 10% mentre in realtà è al 27-30%. Ai prezzi di molti beni primari congelati, si sono aggiunte nazionalizzazioni costose e inutili. Alcuni servizi, come i treni o l’energia elettrica, non funzionano perché non si è investito a causa dei prezzi congelati? Subito è partita la minaccia della nazionalizzazione. Gli argentini ricorrono al dollaro per mettersi al riparo dall’incertezza e dall’inflazione. Dal 2011 il governo ha adottato una serie di misure restrittive sul cambio, dalla restrizione delle importazioni, con conseguenti liti con il Brasile, ai rigidi controlli e difficoltà per gli argentini per avere dollari, dagli acquisti necessari di autorizzazione, al 35% di tasse sull’uso delle carte di credito all’estero, alle restrizioni per acquisti su Internet, ai poveri cani addestrati per annusare i passeggeri negli aeroporti per vedere se trasportano non droga, ma dollari. Gli argentini non si lasciano spaventare e comprano dollari come possono al mercato nero. Lo chiamano in mille modi, parallelo, blu, Messi, quando il costo arriva a 10 che è il numero della maglia del calciatore argentino. Nuove parole entrano nella vita degli argentini, come “arbolitos”, le persone che vendono e comprano dollari nelle strade, “cuevas”, i luoghi dove si commerciano illegalmente dollari. Di fronte al tonfo del peso di giovedì 23 gennaio, il Governo ha allentato le misure restrittive sul possesso e acquisto di dollari nel tentativo di allentare le pressioni sulle valute pregiate. Sono rimasti nelle casse dello stato circa 28 miliardi di dollari di riserve. Gli esperti dicono che con questa situazione non basteranno per più di tre o quattro mesi, poi vedremo quello che accadrà. Un giornale argentino ha ridicolizzato il titolo di Repubblica “L’Argentina fa tremare il mondo”, un default dell’Argentina potrà creare problemi, ma limitati, certamente ai vicini brasiliani, non ne darà agli investitori stranieri, perché dal 2001 nessuno ha più comprato i titoli argentini. Certo ci sono ancora 10 miliardi di debiti con il Club di Parigi, ma questa è un’altra storia. Questa volta 300.000 italiani non piangeranno come nel 2002 per la perdita dei loro risparmi nei “tango bonds”, le lacrime saranno solo argentine.
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