I primi giorni di aprile hanno visto fatti e dichiarazioni che sembravano aprire la speranza della fine della cinquantennale guerriglia delle FARC in Colombia. Sono infatti cinque decadi che le Forze Armate Rivoluzionarie della Colombia, organizzazione nata dalla decisione presa nel 1964 dal Partito Comunista Colombiano di passare alla guerriglia, affrontano senza esclusione di colpi il governo e le forze armate del paese. Dopo dure sconfitte segnate anche dalla morte di leaders della organizzazione, definita dall’ONU e dall’UE come terroristica, due fatti sembravano aprire una nuova fase. Con una scenografica liberazione degli ultimi militari e poliziotti in loro mani, con la dichiarazione che non avrebbero più fatto sequestri a fini finanziari, le FARC sembravano avviate sul cammino anche se difficile di una trattativa di pace. Il presidente Santos, da parte sua, pur ribadendo le richieste classiche per una trattativa, cessazione di ogni attività militare e liberazione di tutti i sequestrati civili, si dice circa 400, aveva fatto approvare in Parlamento una legge per rimborsare chi aveva avuto danni dagli scontri tra soldati e guerriglieri, in parte andava incontro ad una vecchia richiesta della guerriglia comunista di essere riconosciuta come soggetto combattente. Questo clima positivo comincia però a cambiare quando nella regione del Caqueta, in uno scontro tra guerriglia ed esercito, viene preso prigioniero un giornalista francese, Romeo Langlois. Le FARC affermano che il sequestro era dovuto al fatto che Langlois vestiva la divisa dell’esercito; pur dichiarandolo prigioniero di guerra, si dicono disposti a liberarlo, volontà ribadita anche pochi giorni fa. Il clima cambia totalmente il 15 di aprile, quando a Bogotà scoppia, secondo i più classici schemi del terrorismo, una bomba al passaggio di un pullman dell’ex ministro degli interni Londoño, due morti e cinquanta feriti. La capitale e il paese tutto ripiombano nella paura e nella tensione più cupe. Seguono altri fatti drammatici. In una scuola di Porto Guzman, nello stato del Putamayo, le FARC hanno rapito tredici ragazzi, in maggioranza bambine. Pochi giorni dopo. Lunedì 21, dodici soldati colombiani morivano vittime di una imboscata organizzata dalle FARC, il luogo dell’agguato è vicino alla frontiera venezuelana, verso la quale sembra si siano ritirati i guerriglieri. Già in un’altra zona vicino alla frontiera venezuelana, il Catatumbo, il 10 di maggio altri sette poliziotti avevano perso la vita sotto il fuoco dei terroristi. Il ministro colombiano della Difesa, Juan Carlos Pinzon, ha chiesto energicamente al Venezuela di fare qualcosa di fronte a questi avvenimenti. Il ministro Pinzon ha definito positiva la reazione di Chavez che ha deciso di intensificare i controlli militari nella zona. Pinzon ha chiesto a Chavez azioni concrete per dare concretezza alle sue dichiarazioni: “non permetteremo incursioni di nessuna forza armata nel territorio venezuelano”. Di parere totalmente diverso è l’ex presidente Alvaro Uribe che, senza mezzi termini, ha accusato “il dittatoriale governo venezuelano di proteggere nel suo territorio i massimi capi delle FARC”. Inoltre Uribe ha polemizzato con Santos per la sua intenzione di negoziare con i movimenti sovversivi che erano stati sconfitti militarmente sotto il suo governo. Uribe polemicamente si domanda come “si può accettare un Venezuela complice del terrorismo come mediatore?”. Ma le nuove offensive delle FARC non hanno solo riportato la Colombia ai bui anni del passato, ma hanno messo chiaramente in luce la spaccatura crescente tra Uribe e Santos. Santos era stato ministro della Difesa, eletto sotto la bandiera della continuità della politica di Uribe. Santos evita la polemica con Uribe, dicendo che “Uribe è storia, adesso bisogna guardare al futuro”. Uribe risponde:” come posso guardare in silenzio se il terrorismo sta recuperando spazio nel mio paese e il governo della Colombia (leggi Santos) si dedica a propagandare la sua immagine?”. Certamente un punto della politica di Uribe ha un dato di verità, le FARC sembravano finite, ridotte in oscuri angoli delle foreste colombiane e invece sono in grado di colpire addirittura nella capitale del paese. A questa domanda sembra dare risposte interessanti uno storico che conosce le FARC, alcuni lo attaccano dicendo che ha anche legami con loro, si tratta dello storico Medofilo Medina, dal passato molto particolare. Laureatosi nell’URSS, iscritto al partito comunista negli anni sessanta, ha conosciuto i vari capi delle FARC come Marulando e Cano. Medina invita a guardare a un dato per capire, le FARC e i suoi ottomila uomini in armi, nonostante i durissimi colpi subiti, hanno mantenuto l’unità di comando nonostante diano loro la caccia ben 450000 soldati armati modernamente. Ogni anno il governo dice che le FARC sono finite, poi non accade nulla. Medina ricorda che questa non è una guerra tra eserciti regolari, non terminerà con date e battaglie decisive. Per Medina per alcuni settori della società boliviana la guerra è meglio della pace, settori politici e militari traggono vantaggi dalla situazione attuale. Le FARC hanno ancora forti appoggi nelle campagne, ma anche nei quartieri popolari delle grandi aree urbane. Santos, se vuole veramente la pace, deve in primo luogo convincere i suoi quattrocentocinquantamila soldati e dir loro cosa faranno dopo la pace. È vero, termina Medina, le FARC hanno aperto un dibattito sulla dimostrata impossibilità di prendere il potere con le armi, ma non si scambi questo con la possibilità di deporre le armi in qualunque modo. Giorni complessi e difficili attendono questo paese. |